sabato 31 gennaio 2009

Amici miei



Amici miei, cosi si inaugura una nuova funzione del blog: segnalare tutte quelle associazioni, blog e mailing list con le quali ci sentiamo in piena sintonia per il loro modo di parlare di enogastronomia.

E questi sono davvero bravi e organizzano bene i loro eventi..... Ho già chiesto loro il via libera per ripetere alcune loro esperienze e speriamo in futuro di trovarsi con bicchiere in mano a fare due chiacchiere

Sono l'Associazione Quintomiglio di san Donato Milanese, potete vedere il loro sito al seguente indirizzo: http://www.quintomiglio.com/index.html

Benvenuti amici miei!

venerdì 30 gennaio 2009

me lo segno in agenda



Domenica 8 e Lunedi 9 Marzo al Lido di Camaiore si tiene una delle manifestazioni, tra le tante che ormai ci intasano le agende, che merita davvero una visita per conoscere ottimi produttori e quindi assaggiare la loro migliore produzione. Organizzato da L'AcquaBona testata online storica e seria del settore ad un costo onesto: 15 euro con degustazioni dalle 11-19 la domenica e dalle 11 alle 18 il lunedì.

Io vado il lunedì perchè spero che la maggior parte degli esperti e curiosi vada la domenica.....

E meritevole da degli organizzatori fare lo sconto anche agli abbonati al loro notiziario e non ai soliti noti e assaggiatori scrocconi che girano tutte le manifestazioni ma non comprano mai una bottiglia.....

Se volete la lista dei vini in degustazione visitate questo indirizzo web http://www.acquabuona.it/2009/01/terre-di-toscana-vini-e-vignaioli/ oppure sul sito della testata web

martedì 27 gennaio 2009

Ma sei proprio uno scorsone!



Ieri vedendo la "Prova del cuoco" mi sono davvero divertito.
Il mega-sommelier televisivo Scorsone illustra il solito vino, con le solite parole enfatiche e pseudo-intellettuali, poi degusta e fa degustare la presentatrice che ovviamente conferma e gradisce il buon vino servito. Scenetta finita? No a quel punto nel cambio di scena irrompe il Bigazzi ( grande esperto enogastronomico anche se nel programma deve fare la macchietta del toscano criticone...) che li smaschera dicendo semplicemente che il vino non andava bevuto perchè il sentore di tappo era così forte che aveva invaso lo studio.... Ovviamente solo parole di circostanza molto imbarazzate ma il senso era che il vino aveva un problema, ma che può capitare e comunque era lo stesso una grande produzione e che poi show must go on.
In effetti può succedere ma questo testimonia ancora una volta il teatrino dell'enogastronomia che quotidianamente va in onda sulle nostre televisioni.
E devo dire che questo bombardamento continuo crea vantaggi innegabili a tutto il settore, me compreso. Ma come in tutte le cose il troppo stroppia e richia di creare una bolla, in questo caso "gustativa".
Credo infatti che un giorno il consumatore, anche quello più influenzabile dal marketing, razionalizzerà che tutti quei colori e sapori nel piatto possono creare degli scompensi: "perchè ho ordinato una bistecca e mi hanno portato un qualcosa che di macedonia?" oppure " volevo un branzino, mica una cioccolata calda. Forse c'era scritto pasticceria e non ristorante sull'insegna... Nella te lo avevo detto che mi devo rifare gli occhiali..."
E così a volte vale per i vini che si vanno ad assaggiare. Ho sentito del sangiovese in purezza costruito perchè sembrasse merlot... mah!
Mi piace la cucina sperimentale ma stiamo attenti a non esagerare, come vedo spesso nei programmi in tv, perchè presto altrimenti ci vergogneremo ad andare al ristorante ed ordinare una bistecca alla griglia, roba da ordinari.
P.s. ma alla rai con tutti i canoni incassati non hanno già più i soldi per comprare la bottiglia di riserva? Lo facciamo anche noi piccolini nelle degustazioni persino alla sagra della porchetta....

lunedì 26 gennaio 2009

Kriek … o della birra alla ciliegia




Ho letto con molta curiosità ed interesse il precedente post sul vino marchigiano fatto con le visciole, e non sono riuscito a trattenermi, mi è scappata …. la tastiera, solo per dire, in un breve post, che la birra alla ciliegia c’è, e già da molti secoli, si chiama Kriek, appunto, ed è una variante della tipologia di birra belga a fermentazione spontanea chiamata Lambic (è una famiglia di birre particolarissima, prometto di riparlarne). La leggenda racconta che questa birra fu “inventata” da un soldato originario di Schaerbeek (nord-est del Belgio, zona famosa per l’omonima varietà di ciliegie) che al tempo delle crociate scoprì il vino rosso (come il sangue di Cristo) dei suoi colleghi spagnoli; al ritorno, sentendone la mancanza, e non disponendo di uva, decise di mettere a macerare e fermentare nella birra le ciliegie del suo giardino, per cercare di ottenere il medesimo risultato. Fin qui la leggenda. Nella pratica la kriek tradizionale nasce dall'aggiunta di ciliegie acidule (prunus cerasus acida) intere al lambic. Tradizionalmente vengono utilizzate ciliegie griotte che appartengono alla varietà di Schaerbeek, che hanno un gusto acidulo e polpa dal colore rosso intenso. E’ previsto l'utilizzo di 20-30 kg. di ciliegie intere ogni 100 litri di lambic, che vengono poste a macerare in botti riempite poi con lambic invecchiato dai 12 ai 18 mesi. Dopo circa 5-6 mesi di macerazione, si procede all'imbottigliamento miscelando alla kriek così ottenuta una quantità di lambic più giovane, per la rifermentazione in bottiglia. Per attenuare la decisa punta di acidità un tempo si usava aggiungere nel bicchiere una zolletta di zucchero. E’ birra che in Belgio “va” tantissimo, soprattutto il gentil sesso ne fa incetta. Forse non tutti sanno che in tutto il mondo attualmente ci sono circa 800 diverse birre alla frutta, l’80% delle quali è però composto da riprovevoli prodotti industriali, dolci ed esageratamente stucchevoli. Il restante 20% è però prodotto di assoluta qualità e spessore. Se vi pungesse vaghezza di assaggiare qualcuna di queste, i nomi dei produttori assolutamente da non perdere sono: Cantillon (la sua Lou Pepe induce al delirio), Hanssen, Girardin e De Ranke (sua la Kriek più difficile, degustativamente parlando).
Ma ci sono anche bravissimi italiani che sanno fare della buonissima birra alla ciliegia (oltre che ad altri tipi di frutta): il Baladin (ancora lui) di Teo Musso, con la sua Mama Kriek; il birrificio piemontese Montegioco, che per la sua Garbagnina usa la pregiata ciliegia, presidio Slow Food, detta “bella di Garbagna”; il Birrificio Italiano di Lurago Marinone (CO), con la sua premiatissima, e ricercatissima anche fuori dai confini italiani, Scires, prodotta con i duroni di Vignola. Tutte birre, queste, perfette per un fresco aperitivo o per accompagnare una crostata alla frutta.

Diritto di primogenitura (in multiproprietà)

Gli antenati birrofili: dalla preistoria alla storia
La birra, come si è visto dalla storia del nome, è “affare” complicato, dalle molte sfaccettature. Se si fosse in campo psichiatrico la si potrebbe definire come un soggetto “dalle personalità multiple”, o, ancora meglio, affetto da un “disturbo dissociativo di identità”. Molti nomi, molte facce, e anche una paternità complicata, “in multiproprietà”. Questo perché, se si va alla ricerca delle origini storiche del prodotto, del progenitore che per primo abbia detto: “ecco, ce l’ho fatta: questa è la birra”, troveremo notizie e luoghi lontani fra di loro nello spazio, ma non nel tempo. Questo perché la birra è apparsa nella storia dell’umanità quasi simultaneamente in luoghi diversi del pianeta, spesso lontanissimi fra di loro e senza possibilità di contatti reciproci. Una cosa è certa: la birra è apparsa sulle tavole dei nostri progenitori (se di tavole si può parlare) fin dal Neolotico (VII millennio a.C.), in Cina (primi anche in questo!), nelle Americhe, nelle Isole Orcadi e anche in Medio Oriente, in Mesopotamia e in Egitto. Quando ancora i nostri antenati non avevano inventato un modo di scrivere (e, forse, anche quando parlavano fra di loro non è detto che si intendessero su tutto), erano già capaci di produrre (e riprodurre) questa bevanda, più o meno inebriante, sicuramente piacevole, decisamente frizzante. Alcuni di questi popoli (come gli Egiziani, per esempio, e i Babilonesi) attribuiscono a divinità la paternità di questo dono/scoperta (Osiride, protettrice dei morti, e Gilgamesh). Molti studiosi associano la scoperta e l’uso di questa bevanda alle mutate condizioni di vita delle popolazioni, divenute stanziali dopo secoli di nomadismo. E’ bevanda che segna, insieme ad altri fondamentali indicatori, un passaggio culturale importantissimo nella storia dell’umanità: l’uomo riesce a fermarsi, comincia a delimitare un luogo che piano piano diventa “casa”, la vita si allunga su di un orizzonte temporale più dilatato, nel quale cominciano a farsi spazio domande e riflessioni di più ampio respiro. Due però sono i luoghi che più hanno segnato la storia di questa bevanda, nell’antichità: la Mesopotamia e l’Egitto. Luoghi speciali, gente speciale, avantissimi per quei tempi (come Platinette, anche loro dicevano agli altri popoli: “scusate le spalle, ma siamo troooooppo avanti!”). La prima traccia inconfutabile dell'esistenza della birra si ha su di una tavoletta di argilla dell'epoca predinastica sumera (circa 3.700 a.C.), il celebre "Monumento Blu" che descrive i doni propiziatori offerti alla dea Nin-Harra: capretti, miele e birra. I Sumeri e i Babilonesi attribuivano grandissimo valore a questa bevanda, in due diversi ambiti: familiare/economico (essenziale nell’alimentazione di grandi e piccini, era anche usata per pagare il salario agli operai), religioso (era bevanda sacra, offerta e consumata dai sacerdoti, con una dea, Ninkasi, ad essa dedicata). Il tutto con una matrice comune: la birra era cosa da donne, loro la facevano in casa, loro la conservavano. Gli Egiziani spingono ancora di più sull’ “aspetto religioso” della bevanda: oltre che per il normale (e diffusissimo) uso quotidiano, la birra era considerata elemento essenziale e vitale anche per la vita ultraterrena. In numerose tombe sono state ritrovate scorte di birra, materiali e materie prime necessari per la sua fabbricazione, oltre a veri e propri modellini di birrifici. Rilevante, comunque, resta, anche per gli Egiziani, il valore economico attribuito alla bevanda: ai Faraoni erano dovuti come tasse dalle città e dalle province, migliaia di vasi di birra e, come per i Sumeri, il salario minimo era liquido (due anfore di birra al giorno). I faraoni stessi possedevano fabbriche di birra. Perché la birra aveva così valore nell’antichità? Semplice: essendo il risultato (allora misterioso) di una bollitura e di una fermentazione, era l’unica bevanda che si poteva bere con sicurezza (veniva usata per svezzare i bambini!); in più ti causava un po’ di sana euforia e ti conduceva ad uno stato di estasi religiosa (vi ricordate “alu”?) …. Che si vuole di più. I Romani e gli Elleni, due delle patrie vinicole del Mediterranee, guardarono con distacco questa passione mediorientale per la birra (che comunque importavano e consumavano in maniera significativa): la consideravano, soprattutto i romani, una bevanda degradata, rispetto al vino, considerato invece una sostanza integra. Il primo pub della nostra Penisola risale però proprio all’ 83 d.C., quando Agricola, governatore della Britannia, tornando a Roma, si portò dietro tre mastribirrai da Glevum (l'odierna Gloucester), e li insediò in una delle sue proprietà, che trasformò, appunto, in luogo di mescita.

Ho accennato alla Britannia: i Celti, e i popoli nordici in generale: da qui ripartirò nel prossimo post.

Per non rimanere solo sui libri di storia, una “declinazione” pratica di queste notizie. Più di una volta, negli ultimi anni, alcuni mastri birrai particolarmente fantasiosi, hanno cercato di produrre birre, dopo attente ricerche, che in qualche modo riproducessero gusto, odore e colore delle birre dei nostri primogenitori. Il primo (significativo) esperimento è stato fatto nel 1988 dall’Americana Anchor Brewing (una famoso produttore, semiartigianale, americano) con la sua Ninkasi (per chi volesse approfondire, può visitare il link http://www.anchorbrewing.com/beers/ninkasi.htm). Adesso non è più in produzione; ho avuto però la ventura di assaggiarla, un’esperienza che non rifarei volentieri. In ordine di tempo è venuta poi l’italiana Nora del birrificio artigianale Le Baladin di Piozzo di Cuneo, il primo, in ordine di tempo, e fra i migliori birrifici artigianali italiani, prodotta con grano kamut (lo stesso ritrovato nelle tombe dei faraoni). Birra non occasionale, ma prodotta normalmente e di facile reperibilità, dagli splendidi sentori esotici, perfetta per accompagnare una cucina speziata ( http://www.baladin.it/selezione/birra_baladin_nora.html). Ultima, almeno fra quelle che ho assaggiato, la ‘T Smisje Meso del geniale produttore artigianale belga Joan Brandt, proprietario e mastro birraio del birrificio De Regenboog (“l’arcobaleno”). La sua Meso è birra stranissima più simile ad una cedrata che ad una birra, e ancora non ha deciso se inserirla in pianta stabile nella propria linea produttiva; ne ho comunque fatto un resoconto più dettagliato qui: http://inbirrerya.blogspot.com/2008/03/t-smisje-meso-zythos-bier-festival-2008.html.

Forse si è capito qual è quella che mi è piaciuta di più.

Alla prossima.

domenica 25 gennaio 2009

Piccolo e solo


Nasce da un aborto, ma non ne risente affatto.
Il Picolit, vanto dell’enologia friulana, soffre infatti del cosiddetto aborto floreale. Molti fiori non vengono fecondati. E allora il grappolo rimane assai diradato, spargolo, come si dice in gergo. Con pochi acini, distanti tra loro. Le rese per pianta e per ettaro si fanno bassissime, rese ancor più limitate dalle tecniche adottate per la vinificazione. È anche per questo probabilmente che questo grande vitigno ha subito periodi di oblio alternati a momenti di gloria. Non era abbastanza redditizio per un’economia basata principalmente sulla quantità.
Forse già coltivato in epoca imperiale romana, eclissatosi in seguito e poi riapparso intorno al 700, è nuovamente uscito di scena per tornarvi intorno al 1970 grazie allo sforzo di Giacomo Perusini e suo figlio Gaetano. E restarci, ci auguriamo, indefinitamente.
Perché il “piccoletto” ha carattere. Anzitutto riesce a fare dell’aborto floreale un punto di forza, un modo per ridurre la resa per ettaro e quindi alzare il livello qualitativo della produzione.
Viene coltivato quasi esclusivamente sui Colli Orientali del Friuli e ha ottenuto recentemente la DOCG (Colli Orientali del Friuli Picolit). C’è anche una sottozona particolarmente vocata, la “Cialla”.
Le sue peculiarità vengono esaltate dalla raccolta tardiva delle uve, fatte appassire poi sui graticci fino ad ottenere un mosto molto concentrato. Segue una lunga fermentazione in botticelle di legno.
Nasce così un vino dal colore dorato, oro antico con toni a volte ambrati. Profuma di miele, di crema pasticcera, pesca, albicocca e vaniglia.
È un grande passito, che in bocca dà sensazioni dolci, ma anche acidule. Insomma non appesantisce affatto il palato e non stucca.
L’abbinamento resta controverso e difficile. C’è chi come il Veronelli, lo riteneva quasi esclusivamente vino da meditazione. Chi invece lo abbina, con più scioltezza, a formaggi erborinati e di carattere, come il gorgonzola. Certamente è perfetto col fois gras, cotto brevemente in precedenza nel vino stesso. E anche con le ostriche. Sui dessert è più ostico. Si può tentare il classico abbinamento di zona con la Gubana, un dolce tipico friulano ripieno di noci, uvetta, pinoli,dalla forma a chiocciola. O anche, ultima tendenza, col cioccolato.
E d’altronde anche questa solitaria ritrosia ad accoppiarsi dimostra carattere, di vino altezzoso che si concede a pochi e scelti fortunati. Come i principi e i papi, che in passato l’hanno assai apprezzato. O come il commediografo Goldoni, che lo definiva la gemma enologica più splendente del Friuli. Pochi perché la produzione è ristrettissima, circa 500 ettolitri l’anno. Scelti, perchè la selezione la fa anche il prezzo, decisamente di fascia alta.
Per cui, se volete farvi tentare da questo nettare, occhio alla bottiglia e al produttore. Che sia serio e affidabile altrimenti correte il rischio di trovarvi con un prodotto impuro, mescolato magari al Verduzzo friulano. Buon vino certo. Ma il piccoletto non gradisce. Se ne sta così bene da solo....

venerdì 23 gennaio 2009

L'arte di scrivere il vino



Navigando capita di vedere in rete delle belle iniziative dedicate al mondo del vino. E non solo le degustazioni, i banchi d'assaggio o i vari calici di stelle, cantine aperte ecc.
Si legge a volte di eventi che riguardano le emozioni del vino e a noi non possono rimanere indifferenti .
In questo caso mi ha colpito questo concorso letterario e ve lo segnalo così come l'ho trovato.

"Terza edizione del concorso letterario di Villa Petriolo. S'IO FOSSI...VINO. Epifanie dello spirito
Il bando e la locandina del nuovo concorso letterario di Villa Petriolo, edizione 2009. La diffusione avrà inizio ufficialmente domani 22 gennaio 2009, per terminare il 30 aprile 2009. Sul sito di Villa Petriolo, da domani, tutte le indicazioni utili per partecipare con un racconto breve della lunghezza massima di 8.000 battute, in lingua italiana. La partecipazione al concorso rimane libera ed aperta ad autori sia italiani che stranieri. Tante le novità ed i premi! "

Il link in questione è: http://www.villapetriolo.com/premiletterari.html
Forse se riesco a tradurre dal toscano all'italiano.... partecipo pure io.

mercoledì 21 gennaio 2009

Dalle Marche con rossore


Ormai lo so. Quando il mio caro amico Max mi guarda di sottecchi con quell’aria un po’ sorniona, significa che ha qualcosa di speciale da mostrarmi.
L’occhiata era appena stata preceduta da una mia domanda “ Ma non hai mica un vinellino da dessert per accompagnare questi dolcetti?”

“Guarda cosa ti fo sentire” risponde lui (mirabile coniugazione di approccio visivo e cinestetico in una sola frase).

E, sempre con l’aria “sottecchiosa”, estrae una bottiglia senza etichetta dalla credenza dell’abitazione affittata col gruppo di amici storici (no, io non ne faccio parte, sono più recente) per celebrare religiosamente, da tempo immemore, un’abbondante libagione lontano da mogli, parenti e scocciature varie. Tutto questo ogni mercoledì (però che idea gagliarda ehm ehm...).
“Questo è vino di visciole” sentenzia.

“Di vi...” Sono spiazzato. Poi mi ricordo che, sì, le visciole sono le ciliegie.
Assaggio. Buono. Dolce, aromatico, intenso. Un bel color rubino. Però! Me ne faccio un secondo goccio mentre Max spiega tutto l’antefatto (sennò che gusto c’è ad offrire) .
Il vino viene da Acqualagna, ridente cittadina marchigiana. Là produrlo è una tradizione contadina secolare: lo fanno anche industrialmente e lo chiamano Visner. Mettono a macerare le visciole in vino locale, di solito sangiovese o montepulciano, e poi lo fanno riposare per qualche mese. Questo il canovaccio. Le varianti sul tema sono abbondanti.
Ma lui lo assaggia da un suo amico marchigiano e se ne innamora. “Per forza- dice l’amico – Questo è il migliore. Lo fa quello della pescheria dal Granchio, la più fornita di Acqualagna.”
Ma che c’entra il pesce con le ciliegie, direte voi? C’entra perchè, come dicevo, ad Acqualagna il vino di visciole lo fanno in tanti, artigianalmente, ma quello di Mirco, il proprietario del Granchio è il non plus ultra.
“Ma ne fa pochissime bottiglie e non lo dà a nessuno. E’ gelosissimo. - dice l’amico - Io sono un suo intimo e per me ha fatto un’eccezione, una!”
Max insiste così tanto che alla fine i due fanno un piano.
Vanno in pescheria dove Max acquista pesce per la cena. E si produce sin da subito in elogi sperticati e sicuramente esagerati, (anche se il Granchio è una bella pescheria, neh) per il pesce, il locale, il titolare del locale, la moglie del titolare e tutta la parentela fino alla quinta generazione passata e futura. E il compare lo spalleggia, eccome.
Alla fine Mirco, colpito da tanta ammirazione, sente di dover far qualcosa per ricambiare. E cade nella rete. “ Sapete che vi dico?” – dichiara - Vi faccio assaggiare un goccio di una cosa che fo io”.
E sul tavolo compare come d’incanto una bottiglia di vino. Di visciole.
E dopo l’assaggio, che volete, l’entusiasmo di Max va alle stelle (“Non posso proprio tornare a casa, in Toscana, senza questo vino”) il compare rincara, e Mirco crolla (mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia) e allunga al nostro amico un’altra bottiglia intonsa. Proprio quella che adesso mi trovo in mano.
Che dirvi? Dopo una storia così mi faccio il terzo bicchierino.
A volte fa tanto piacere prendere un Granchio !

lunedì 19 gennaio 2009

Rosso di Sera, i sodi

Eh si un bel rosso, in una bella sera è davvero una soddisfazione.

Tenevo da tempo questa bottiglia nella cantinetta climatizzata dove custodiamo i nostri bambini ( io e la mia socia al 50%, la moglie...) e aspettavo solo l'occasione giusta.

Quindi sabato ho avuto le coordinate giuste, due amici a cena veramente appassionati del buon bere e un menù abbastanza ideale. lasagne e arrosto.

E quindi di soppiatto, come fossi Arsenio Lupin, ho stappato prima che qualcuno contestasse la scelta ma anche prima che mi venissero i soliti sensi di colpa

Mi succede sempre prima dell'apertura di un vino che ho messo in affinamento e che mi da gioia solo per il fatto di averlo in cantina, che volete sono le manie del fissato.

E poi che lo conosca già o no, ho davvero sempre un rispetto a volte eccessivo verso quel prodotto che qualcuno ha realizzato con la sua arte enologica magari un bel pò di anni prima. Mi sembra di violare uno scrigno e che dopo non avrò più la bellissima aspettativa che si prova nel veder crescere un bel vino.

Per chi non ama il vino deve essere davvero sciocco tutto ciò, ma per me è la natura stessa della mia passione. Abituato nel mondo frenetico ad adeguarmi ad una velocità quasi insostenibile in tutti i settori, dall'affettivo al lavorativo, qui riesco ad "usare" il tempo per la mia felicità. Posso idealmente sedermi sotto il mio albero preferito ed aspettare gli effetti del tempo sul mio amato vino. Bene basta così altrimenti sembra una crisi alcolica questa.

I SODI di SAN NICCOLO' si diceva, grande grande rosso vi confermo. Già allo stappo il profumo di fiori e frutta arriva al naso, poi nel bicchiere un superbo rosso rubino vivace e brillante fanno venire la classica acquolina in bocca. Si mette il naso nel bicchiere e salgono subito altri aromi delicati di vaniglia, frutta rossa matura, di etereo e di sottobosco. Ma è la pulizia che impressiona, grande carattere senza strafare nei gradi alcolici.

Al palato poi un tannino fine e delicato con un acidità complice che non intacca la morbidezza complessiva. Gusto pieno, persistente e con un finale di bocca molto piaevole.

Grande esempio di sangiovese toscano senza influenze merlottiane o cabernettistiche che arrivano, come di solito succede anche se non invitate, alla nostra personale festa.

Vade retro almeno per questa volta, voglio assaggiare la toscana.

E come alleato in questa rappresentazione il sangioveto porta con se un altro vitigno locale, la malvasia nera.

Lode a te produttore-genitore di questo piccolo gioiello che è nato nel 2001 tra i sassi (i sodi) della collina e cresciuto sano in quel di Castellina in Chianti.


giovedì 15 gennaio 2009

Nomen Omen?


”In vino sapientia, in cervesia vis, in aqua germines”


A sentire Rutilio, poeta latino del V secolo d.C., gli amanti della birra e del vino avrebbero dunque un nemico comune; di fatto perdente, visti i compagnucci che si porterebbe con sé …..
Birra e vino, due mondi contigui, entrambi antichissimi, entrambi espressione del progresso sociale, economico e culturale dell’umanità: si è cominciato a produrre vino e/o birra quando l’uomo si è trasformato da nomade a stanziale, da cacciatore a contadino, la sua vita si è allungata, e ha cercato di renderla più piacevole. Due mondi non antitetici, l’uno non esclude l’altro: entrambi sono espressione della fantasia creativa dell’uomo, della sua capacità di produrre e manipolare prodotti di per sé naturali (l’uva per il vino, malto orzo lievito ed acqua per la birra) per dare vita ad un qualcosa d’altro.
Con un’unica differenza, almeno qui da noi: in un paese come l’Italia (l’antica “Enotria” dei greci, la “terra del vino”) a fortissima vocazione vitivinicola, il vino è prodotto conosciutissimo, del vino molti sanno tanto (o così sembrerebbe), mentre della birra quello che si sa, spesso, ha poco a che fare con la birra stessa. Si sa della birra, solo quello che racconta la pubblicità. Che non è, come tutti sanno, la bocca della verità.
Mi piacerebbe iniziare qui, su questo blog “abitato” da amanti del vino, un percorso (spero interessante e il meno scolastico possibile) di avvicinamento al “magico mondo della birra”, che è molto più ricco di quanto l’Heineken o la Peroni tentino di farci credere. E “magico” è un termine che non uso a caso, e non nasconde nessun tipo di orgoglio di casta: l’arte e l’iconografia popolare fino al XVI secolo hanno raffigurato il mastro birraio nello stesso modo nel quale venivano rappresentati gli alchimisti (quelli che andavano a caccia anche della pietra filosofale, cercando pure di ricrearla in laboratorio): con la stella a sei punte sullo sfondo (e la Maghen David per chi se ne intende un po’ di occultismo rappresenta un universo simbolico sterminato). Questo perché, come vedremo in seguito, nessuno ha capito (per quasi 10.000 anni) com’è che veniva fuori la birra dal pentolone: si mischiavano gli ingredienti, si accendeva il fuoco, e … come per magia dopo un po’ veniva fuori questo liquido inebriante. Solo nel 1873 Pasteur capì, e svelò la magia: da allora comincia la storia dell’Heineken, che ha quasi posto fine alla storia della birra. Per fortuna non c’è riuscita.
Per far conoscere qualcosa a qualcuno, ma soprattutto per “prendere possesso di qualcosa”, l’uomo ha inventato una procedura semplicissima, e quasi infallibile: dare un nome alle cose. Quindi, anche per la birra, conviene, per conoscerla (o ri-conoscerla), impararne il nome, che rivela moltissimo della sua storia, contenendone spesso il destino (da qui il titolo di questo post), o la destinazione.
- Assiri: bi-se-bar, “bevanda che fa vedere chiaro”
- Babilonesi: sikaru pane liquido
- Egiziani: zythos
- Greci: zythum, dalla pianta zea (antenato del frumento), ed è da questa radice che in seguito
nascono i termini scientifici riferiti alla fermentazione, come “zimotico
- Traci: Brutos o brytos, dal termine col quale si definiva l’orzo (si potrebbe tradurre
con “vino d’orzo”)
- Creta: Bruton
- Romani: cerevisia (in onore della dea Cerere, dea dell’agricoltura, con l’aggiunta di –vis =
forza). Da qui gli altri nomi derivati: cervesia, cervogia, cerveza.
Fino al 1300 il termine moderno “birra” non compare. E da dove e perché compare è questione ancora controversa. Potrebbe derivare dal termine indogermanico bh(e)reu o bh(e)ru, che significa "ribollire". Altri lo collegano al termine anglosassone baere, col quale si indicava l’orzo. Altri lo fanno risalire ad una crasi del termine latino bibere. Interessante, infine, il doppio modo ancora in uso nei paesi anglosassoni di definire la birra: beer e ales. Ales che deriva dal latino “alere” (crescere), o “alimentum” (cibo), ma anche (o soprattutto) dall’antico gaelico “alu”, stato di estasi.
Piccolo ma, spero, esaustivo giro d’orizzonte. La birra è quella cosa che sostenta (pane liquido), che ti apre la mente (bevanda che fa vedere chiaro), che ti fa anche uscire da te avvicinandoti alla divinità (alu, stato di estasi), è bevanda creata e “protetta” dalla divinità (cerevisia e bruton).
E cos’ha in comune con il vino? L’alcool. Che è un termine inglese derivato dall'arabo "al-kuhul", "polvere di antimonio". Era, in pratica, un ombretto, una polvere che si usava nel medioevo per annerire le palpebre nel trucco femminile. A sua volta deriva dalla parola araba "kahala", che significa "dipingere".Solo nel 1672 è il termine è stato usato nel senso di "sostanza sublimata, lo spirito puro di qualcosa".
Forse è qui che si chiude il cerchio interpretativo: birra e vino, entrambi ricchi di alcool, sono “prodotti di bellezza”, che “ridipingono” l’aspetto delle cose, fino alla sublimazione assoluta. Magari non è così, le connessioni posso anche sembrare un po’ tirate per la giacca, ma non mi dispiace pensarlo.

lunedì 12 gennaio 2009

amici a tutta birra



Arrivano gli amici birrai e diamo il benvenuto! Il nostro birraio di fiducia Alberto Laschi ci delizierà con alcuni post sulla birra e per chi vuole potrà seguirlo nel suo blog http://www.inbirrerya.blogspot.com/.

Vino e birra assieme? La vita è veramente meravigliosa da questo punto di vista, sotto il segno del gusto e della qualità non ci sono mai divisioni.

benvenuto alberto!

Ecco questo ci mancava....

 
Da un articolo del quotidiano IL SECOLO XIX arriva per noi amanti delle bollicine questo spettacolare metodo di spumantizzazione. Sembra che sia prevista la vendita diretta ( sul fondo ) con un sarago ogni 3 bottiglie.
Credo che ormai vendere il vino sia davvero difficile, però complimenti per l'idea a livello di marketing.... i giornalisti del settore impazzano per storie del genere!
Noi potremmo fare un veloce corso sub e poi......
 
"Nasce nel Levante, fra le acque del mare dell'Area Marina Protetta di Portofino e le terre uniche – ottimamente esposte al sole e in collina, sulle alture che abbracciano il mare dell'Area Marina- il primo spumante fatto maturare in mare. Manca ancora il nome, così come - per ora - si vuole mantenere top secret il punto esatto dove le bottiglie verranno immerse per completare la fase di maturazione dello spumante. Tutto il resto, ha lo spirito e la brillantezza dei protagonisti di questa avventura. lLideatore dello spumante che unisce terra e mare, Piero Lugano: origini (da parte di nonni) metà piemontesi e metà liguri (di Camogli), chiavarese di adozione e fondatore, trent'anni fa, delle Cantine "Bisson" a Chiavari

L'idea si trasforma in progetto: con l'enologo Enzo Michelet e l'agronomo Walter Iguera, Lugano pensa a come poter sfruttare le proprietà del mare, per dare vita a uno spumante unico. Coinvolge l'Area Marina Protetta di Portofino, che abbraccia l'idea: il presidente Augusto Sartori e il direttore Giorgio Fanciulli hanno già inoltrato al ministero per l'Ambiente tutte le richieste per le necessarie autorizzazioni. «Pensando alle anfore dei galeoni, mi sono chiesto e ho studiato il perché il vino fosse riuscito a conservarsi senza alterare le sue proprietà. Essendo rare nel nostro territorio grotte e gallerie dove far maturare lo spumante, mi è venuto in mente il mare». Per una perfetta maturazione, la luce (che è un agente ossidante) deve essere quasi assente e non intaccare i vetri oscurati delle bottiglie. Il fondale del mare garantisce queste condizioni, così come a una profondità tra i 50 e i 70 metri una temperatura ideale di 15 gradi centigradi e scarsissime escursioni termiche.

Le bottiglie di spumante saranno pronte nel 2010: si parla di 5000 litri spumantizzati e le richieste già fioccano anche dal mercato internazionale (come dagli Usa e dal Canada ). «Abbiamo unito terra e mare- conclude Lugano- certamente i costi di questo processo sono elevati, per un prodotto certamente unico»."

domenica 11 gennaio 2009

Nobile è la nebbia


È iniziato alla grande, con la regione Piemonte, il corso sui territori del vino. Come dice Andrea nel post precedente gli allievi hanno seguito con attenzione e interesse la prima lezione, ponendo anche varie domande in merito.
La cortesia dei gestori della Bottega del Peruzzi ad Artimino, che hanno messo a disposizione i locali, ha fatto il resto.
L’unico problema riguarda il relatore. Ma ci stiamo lavorando. D’altronde,si sa, la perfezione non è di questo mondo...

Vi offriamo allora un approfondimento sulla lezione appena conclusa. Un omaggio dedicato ai corsisti e a tutti i lettori, sempre più numerosi, del blog. A chi potevamo dedicarlo se non a sua maestà il Nebbiolo?

UN PO’ DI STORIA
È uno dei più grandi vitigni del mondo, ma la sua origine è avvolta nella...nebbia.
Eh, sì perché l’interpretazione prevalente sulla derivazione del nome Nebbiolo è quella che lo fa risalire al sostantivo “nebbia”. Perché l'uva matura tardi, quando le colline dove alligna sono già avvolte dalle prime brume autunnali. E perché gli acini presentano sulla superficie esterna un’abbondante pruina (una speciale cera che, come per le prugne da cui trae il nome, ricopre l'acino ed ha tra l’altro l’ importante funzione di proteggerlo dagli agenti esterni) che rende il chicco grigio-argentato, quasi annebbiandolo.
Ma c’è anche Battista Croce, gioielliere di casa Savoia, che nel suo famoso trattato “Della eccellenza e diversità dei vini che nella Montagna di Torino si fanno e del modo di farli”, del 1606, parla del Nebiol come la migliore tra le uve nere “più eccellenti” e ne fa derivare il nome dall’aggettivo “nobile”. Croce spiega l’affinità con nobile per il fatto che dal Nebiol si ricava un vino generoso, gagliardo e dolce.
E nobile il Nebbiolo lo è per davvero.
Perché tutti ne parlano. Da molto tempo. Già lo citava Columella, scrittore romano del I secolo d.C., autore del più completo trattato sull’agricoltura dell’antichità, il De re rustica. E lo proteggono. Tanto per fare un esempio, nel medioevo gli Statuti lamorresi (La Morra è zona storica per la produzione di Nebbiolo) prevedevano l’impiccagione per chi si fosse reso colpevole della rovina di più di quindici viti nelle proprietà altrui. Un’ enorme severità, che ci fa comprendere quanto questo vitigno fosse diventato assai importante economicamente, quasi prezioso.

VINIFICAZIONE E DINTORNI
Nobile perché viene vinificato quasi esclusivamente in Piemonte. Altrove dà risultati scadenti.
Ha bisogno di cure attente e laboriose ed è ‘molto esigente in fatto di tipo di terreno, della sua giacitura ed esposizione, di lavorazioni e concimazioni. Terreni “forti”, calcarei e tufacei, sono perfetti per questo vitigno.
Germoglia precocemente, verso la metà di aprile, e giunge a maturazione piuttosto tardi rispetto ad altri, verso la metà di ottobre. Abbastanza sensibile agli sbalzi improvvisi di temperatura, vuole o vorrebbe un decorso climatico regolare, per cui va coltivato in posizioni collinari ben esposte al sole, sud sud-ovest, fra i 200 e i 450 m. s.l.m., al riparo delle gelate e dei freddi di primavera.

LE VARIETÁ
Ha tre sottovarietà: Michet (dal nome dialettale “micot”, piccola pagnotta di pane), Lampia, Rosè (che dà vini più scarichi ed è quasi scomparsa), originatesi da mutazioni nel corso dei secoli, diverse per attitudini colturali e capacità produttiva.
La prima, la più rinomata, è caratterizzata da una produzione piuttosto incostante e limitata, per questo motivo la sua coltivazione si sta riducendo nonostante l’ottima qualità. Facilmente riconoscibile per la foglia pentalobata di dimensioni inferiori alla media, il grappolo compatto, piccolo, cilindrico, l’acino tondo di colore violaceo rossiccio, pruinoso.
La seconda,la più diffusa per la buona resa quantitativa e per il vino pregiato che ne deriva, presenta foglia grande, trilobata, grappolo ben sviluppato di forma piramidale allungata, acino tondo, viola scuro, fortemente pruinoso.
Ma l’elenco potrebbe continuare con diversi altri nomi: S. Luigi, Rossi, Bolla, quest’ultima condannata perché troppo produttiva.
Nobile perché è coltivato in poche zone privilegiate e raggiunge soltanto il 3% della produzione vinicola piemontese. Gli ettari vitati sono di poco superiori ai cinquemila, e sono, tanto per dare un’idea, la metà di quelli coltivati a Dolcetto e un decimo circa di quelli coltivati a Barbera.
Nobile perché è la base per grandi vini rossi orgoglio del Piemonte vitivinicolo: a partire da sua altezza il Barolo, per continuare con Barbaresco, Langhe, Gattinara e Ghemme.
Insomma, un vitigno unico.
E se poi capitate in Valtellina e vi offrono un bicchiere di Chiavennasca, occhio al nome e dateci sotto, è Nebbiolo pure quello. È solo il nome di un’altra sua fortunata sottovarietà. Ma siamo già sconfinati in Lombardia e questo è argomento della lezione di mercoledì prossimo.

E, a proposito di lezioni, prima della risposta di fuoco del mitico Bassini, vi annuncio che abbiamo scherzato. Il relatore è stato ovviamente più che all’altezza, “snebbiando” le menti degli astanti da qualsiasi dubbio potesse sorgere in merito ai vini piemontesi.
Alla prossima

giovedì 8 gennaio 2009

Sul piemonte con stupore




E siamo partiti, subito a bomba, con una regione dove la cultura del vino è forte e profonda, il grande Piemonte. Quindi dopo un analisi generale del territorio e dei principali vitigni e vini abbiamo assaggiato il Gavi docg, la Barbera d'Asti, il Barbaresco ed il Barolo.


Non è mia intenzione fare in questa sede il resoconto della degustazione tecnica ma invece rilanciare il tema del gusto del vino. Infatti abbiamo potuto assaggiare nel caso del barbaresco e del barolo due vini appena nati, anno 2004. Partendo dal presupposto che entrambi sono "bevibili" piacevolmente a partire magari dal 10° anno, cosa possiamo aver percepito dalla nostra degustazione? Profumi buoni, quasi ottimi, ma al palato….. giustamente terrificanti! E ho visto lo sguardo smarrito dei degustatori, solo per rispetto nei miei confronti non si sono lamentati. E pensare che la mia parte malefica di me è in estasi quando vedo fare le


Boccacce… ma loro sono un buon gruppo davvero, e con umiltà ( più facile trovare un giacimento di petrolio a Viareggio che questa virtù tra gli "pseudo-intenditori di vino") ho visto davvero in alcuni lo sforzo di capire cosa andavo blaterando. Verificato che i prodotti erano di ottima qualità, si è assaggiato un vino destinato a divenire un grande vino e che un degustatore deve però imparare a riconoscere sin dalla culla pur nelle sue legittime spigolature e mancanza di equilibrio ottimale. Non è facile lo riconosco, ma siamo tutti ad imparare. E poi abbiamo assaggiato dei vini non uniformati, e già questo è buono.


Una volta presa pratica in questo, potremo comprare i vini destinati ad un buon invecchiamento anche giovani e farli maturare nella nostra cantina, risparmiando tanti euro ed evitare di dover comprare annate vecchie strapagandole.


Tanto per i vini abboccati, morbidi e ruffiani abbiamo le altre serate.


E poi si trovano anche dal giornalaio ormai….

domenica 4 gennaio 2009

I want you!

 
Appello a tutti i prodi appassionati Winelovers:
condividi la tua esperienza culinaria e
inviaci segnalazioni di piatti, vini,
foto gustose e considerazioni varie.
Non fatemi bere da solo.....
 
 
 

dal vecchio al nuovo (anno)

 
 
Finalmente 2009! Cominciavo a stancarmi dell'attesa, dei buoni propositi e delle riunioni mangerecce (incredibile ma vero).
Allora passato bene questo periodo? spero proprio di si
Personalmente ho avuto la possibilità di assaggiare specialità enogastronomiche modenesi visto che ho trascorso li le mie feste natalizie.
E non mi è andata mica male... Settore vino ovviamente non stravolgente salvo il fatto che anche il tanto criticato Lambrusco doc ha delle facce poliedriche.
Si ce ne sono veramente di tutti i tipi e qualità. Per gli autoctoni non dovrebbe costare più di 3-4 euro, quindi immaginate cosa possono pensare di me che ne ho acquistato uno da ben 9,5 euro! Una pazzia secondo loro, ma vorrei veramente vederli vivere in toscana dove un vino di quel prezzo è considerato spesso in modo presuntuoso un vinello scadente.
E comunque con la loro cucina, si abbina da dio altrochè. Se solo provassimo a bere un bel rosso toscano fermo da 14 gradi con il cotechino... eheh! Per il secondo boccone dovremmo aspettare dei minuti prima di avere la bocca pulita dall'impasto colloso formatosi: quindi viva i vini giusti secondo l'abbinamento tradizionale!
E poi davvero quando un produttore prova a fare qualità, si sente la differenza anche nelle varie tipologie di vino.
Ma l'oggetto del desiderio sono stati assieme al cotechino artigianale, tortellini e arrosto.
Dei tortellini original Modena che dire... è un esperienza mistica e dopo quelli Rana non si mangiano più! Perchè nel buon tortellino piccolo e fatto a mano ( una cosa da artisti, difficilissima come manualità) si deve sentire chiaramente la ciccia usata e il buon parmigiano, che si alternano in bocca tanto da non stuccare o annoiare mai. E come le noccioline non si smetterebbe mai di mangiarne, uno dietro l'altro.... provare per credere.
Per il cotechino stesso discorso, quello artiginale fatto dai loro macellai non è nemmeno paragonabile a quello precotto industriale. In bocca si sente meno colloso, più saporito, si scioglie quasi. E poi notevolmente più digeribile soprattutto se bagnato da un buon lambrusco. Qui la tradizione lo vuole assieme al purè di patate, fagioloni bianchi di Spagna o spinaci saltati.
Dell'arrosto invece dico solo che ho scoperto un taglio di carne che viene chiamato copertina di vitello, cotto in forno e tagliato sottile  e che risulta davvero di ottimo sapore. Mi piacerebbe sapere se viene fatto anche da noi e qual'è il suo nome locale. Qualcuno di voi ha la risposta?
Naturalmente ho assaggiato altre 10-12 pietanze ma non voglio annoiarvi anche perché sarete sulla digestione anche voi, però mi sembra che siano tra le cose buone che voglio ricordarmi del 2008.
Adesso un pò di riposo per palato e pancia, ma il 7 si ricomincia dal Piemonte al corso, ed è un gran Piemonte!
Buon 2009!
Ps. nella foto uno Zampone, il cugino più grasso del cotechino

bei tempi...