giovedì 15 gennaio 2009

Nomen Omen?


”In vino sapientia, in cervesia vis, in aqua germines”


A sentire Rutilio, poeta latino del V secolo d.C., gli amanti della birra e del vino avrebbero dunque un nemico comune; di fatto perdente, visti i compagnucci che si porterebbe con sé …..
Birra e vino, due mondi contigui, entrambi antichissimi, entrambi espressione del progresso sociale, economico e culturale dell’umanità: si è cominciato a produrre vino e/o birra quando l’uomo si è trasformato da nomade a stanziale, da cacciatore a contadino, la sua vita si è allungata, e ha cercato di renderla più piacevole. Due mondi non antitetici, l’uno non esclude l’altro: entrambi sono espressione della fantasia creativa dell’uomo, della sua capacità di produrre e manipolare prodotti di per sé naturali (l’uva per il vino, malto orzo lievito ed acqua per la birra) per dare vita ad un qualcosa d’altro.
Con un’unica differenza, almeno qui da noi: in un paese come l’Italia (l’antica “Enotria” dei greci, la “terra del vino”) a fortissima vocazione vitivinicola, il vino è prodotto conosciutissimo, del vino molti sanno tanto (o così sembrerebbe), mentre della birra quello che si sa, spesso, ha poco a che fare con la birra stessa. Si sa della birra, solo quello che racconta la pubblicità. Che non è, come tutti sanno, la bocca della verità.
Mi piacerebbe iniziare qui, su questo blog “abitato” da amanti del vino, un percorso (spero interessante e il meno scolastico possibile) di avvicinamento al “magico mondo della birra”, che è molto più ricco di quanto l’Heineken o la Peroni tentino di farci credere. E “magico” è un termine che non uso a caso, e non nasconde nessun tipo di orgoglio di casta: l’arte e l’iconografia popolare fino al XVI secolo hanno raffigurato il mastro birraio nello stesso modo nel quale venivano rappresentati gli alchimisti (quelli che andavano a caccia anche della pietra filosofale, cercando pure di ricrearla in laboratorio): con la stella a sei punte sullo sfondo (e la Maghen David per chi se ne intende un po’ di occultismo rappresenta un universo simbolico sterminato). Questo perché, come vedremo in seguito, nessuno ha capito (per quasi 10.000 anni) com’è che veniva fuori la birra dal pentolone: si mischiavano gli ingredienti, si accendeva il fuoco, e … come per magia dopo un po’ veniva fuori questo liquido inebriante. Solo nel 1873 Pasteur capì, e svelò la magia: da allora comincia la storia dell’Heineken, che ha quasi posto fine alla storia della birra. Per fortuna non c’è riuscita.
Per far conoscere qualcosa a qualcuno, ma soprattutto per “prendere possesso di qualcosa”, l’uomo ha inventato una procedura semplicissima, e quasi infallibile: dare un nome alle cose. Quindi, anche per la birra, conviene, per conoscerla (o ri-conoscerla), impararne il nome, che rivela moltissimo della sua storia, contenendone spesso il destino (da qui il titolo di questo post), o la destinazione.
- Assiri: bi-se-bar, “bevanda che fa vedere chiaro”
- Babilonesi: sikaru pane liquido
- Egiziani: zythos
- Greci: zythum, dalla pianta zea (antenato del frumento), ed è da questa radice che in seguito
nascono i termini scientifici riferiti alla fermentazione, come “zimotico
- Traci: Brutos o brytos, dal termine col quale si definiva l’orzo (si potrebbe tradurre
con “vino d’orzo”)
- Creta: Bruton
- Romani: cerevisia (in onore della dea Cerere, dea dell’agricoltura, con l’aggiunta di –vis =
forza). Da qui gli altri nomi derivati: cervesia, cervogia, cerveza.
Fino al 1300 il termine moderno “birra” non compare. E da dove e perché compare è questione ancora controversa. Potrebbe derivare dal termine indogermanico bh(e)reu o bh(e)ru, che significa "ribollire". Altri lo collegano al termine anglosassone baere, col quale si indicava l’orzo. Altri lo fanno risalire ad una crasi del termine latino bibere. Interessante, infine, il doppio modo ancora in uso nei paesi anglosassoni di definire la birra: beer e ales. Ales che deriva dal latino “alere” (crescere), o “alimentum” (cibo), ma anche (o soprattutto) dall’antico gaelico “alu”, stato di estasi.
Piccolo ma, spero, esaustivo giro d’orizzonte. La birra è quella cosa che sostenta (pane liquido), che ti apre la mente (bevanda che fa vedere chiaro), che ti fa anche uscire da te avvicinandoti alla divinità (alu, stato di estasi), è bevanda creata e “protetta” dalla divinità (cerevisia e bruton).
E cos’ha in comune con il vino? L’alcool. Che è un termine inglese derivato dall'arabo "al-kuhul", "polvere di antimonio". Era, in pratica, un ombretto, una polvere che si usava nel medioevo per annerire le palpebre nel trucco femminile. A sua volta deriva dalla parola araba "kahala", che significa "dipingere".Solo nel 1672 è il termine è stato usato nel senso di "sostanza sublimata, lo spirito puro di qualcosa".
Forse è qui che si chiude il cerchio interpretativo: birra e vino, entrambi ricchi di alcool, sono “prodotti di bellezza”, che “ridipingono” l’aspetto delle cose, fino alla sublimazione assoluta. Magari non è così, le connessioni posso anche sembrare un po’ tirate per la giacca, ma non mi dispiace pensarlo.

2 commenti:

  1. Caro Alberto benvenuto e grazie per l'interessante nota storica. E'una vera e propria cultura enogastronomica quella che ci spinge alla conoscenza e degustazione del vino e della birra, quindi adesso mi viene da fare ancora più attenzione su quello che andrò a degustare. però devo toglierti un difetto, visto che a te piacciono solo i vini bianchi.... quindi alimentazione forzata ad amarone......
    andrea

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  2. Benvenuto sul blog e grazie mille per questa interessante disquisizione etimologica, Alberto, che peraltro anche a me, amante del vino, fa venire l'acquolina in bocca.

    Per stimolare il dibattito ti dirò, che, visto che anch'io sono un appassionato di etimologia, secondo alcuni il latino Cerevisia o Cervisia, non indica "la forza di Cerere" bensì è voce mutuata dal celtico Coruf o Caref.

    Aspetto nuove puntate !

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bei tempi...